Il problema è l’italiano

Per anni mi sono chiesto cosa c’è che non va negli attori italiani. Su 100 performance attoriali che vedo, 5 mi convincono davvero. Inoltre anche quelle decenti, spesso fanno comunque trapelare il fatto che ci troviamo di fronte ad un attore italiano. Non sappiamo recitare, allora? Non proprio. Penso agli attori italiani che recitano nei film americani: mi danno un’impressione in qualche modo diversa (sì, ok, potrebbe essere una suggestione). A questo discorso ne ho connesso un altro: io ascolto podcast americani e podcast italiani, e i primi mi sembrano sempre decisamente più spontanei – come se gli host stessero “recitando bene” – rispetto a quelli nostrani, decisamente più impacciati. Infine, l’illuminazione: ho messo affianco, nella mia testa, le interviste che vengono fatte per strada durante i talk show americani e quelle fatte nel nostro paese: nelle interviste anglofone i passanti – tutti i passanti – stanno davanti alla telecamera più o meno come farebbe un attore, e anche quando guardano in macchina in un certo senso sembrano non farci caso, mentre quando guardo le nostre interviste non ho proprio l’impressione di vedere “persone vere”, quanto piuttosto persone che recitano la parte di “persone vere”. Può sembrare folle come discorso ma sto descrivendo una percezione e non è molto semplice farlo. Comunque, a un certo punto ho collegato questi mondi – cinema, podcast, gente a caso davanti a una videocamera – e ho pensato: non sarà la lingua italiana il problema?

La nostra lingua, in un certo senso, impone una certa impostazione, una struttura, ed è formale anche quando si sforza di non esserlo. È una lingua magnifica nella misura in cui è complessa. L’inglese è spontaneo, immediato, incensurato, dinamico, fluido, e si presta meglio di ogni altra lingua alla recitazione (nel senso più ampio del termine, si intende). Pensandoci, dall’italiano all’inglese ci sono delle lingue “intermedie” – più o meno legate al latino – che appartengono a quei paesi i cui prodotti televisivi mi sembrano più americani di quelli italiani, ma meno americani di quelli americani. È come se, in un certo senso, più una lingua è vicina al latino, meno è adatta a un certo tipo di performance.

Bene, la verità è che in questo momento mi sto asciugando le lacrime di gioia perché finalmente qualcuno ha messo in luce questa fondamentale questione linguistica, ovvero Giuio D’Antona su Serialmente. Il suo sguardo non è tanto indirizzato alla recitazione quanto piuttosto alla narrazione, ma credo che il mio e il suo pensiero abbiano diversi punti di tangenza.

Dopo la terza puntata della terza web-sitcom avevo intuito la risposta al mio interrogativo: sta tutto nel suono. L’italiano è una lingua complessa, i copioni delle sit si costruiscono sulle puchlines. [...] Per fare questo occorre una lingua tronca, asciutta, netta. Bisogna che ogni parola abbia un significato e che sia soltanto quello. Occorre l’elasticità di poter coniare nuovi termini all’occorrenza e che quei termini siano immediatamente comprensibili. Niente giri di parole. Punch. Risate, sempre. L’italiano non possiede questa caratteristica, è una lingua che non ha capacità di sintesi o di manomissione, per questo è così magnifica da sentire e da scrivere, così adatta alle opere e così romantica. Manca di quel pragmatismo proprio dell’inglese, che la fa suonare come un linguaggio tecnico e che, di fatto, infonde efficacia alle punch. Risate, sempre.

Giustamente D’Antona sostiene che «ci vuole qualcuno che sappia scrivere e qualcun altro che sappia recitare» e questa non è assolutamente una riflessione scontata. Quel poco della serialità italiana che ho avuto la sfortuna di guardare mi ha davvero dato la sensazione di una totale mancanza di sensibilità degli autori per le vicende umane, per le motivazioni concrete che muovono le persone. Non ce la facciamo a mettere sullo schermo delle persone che siano persone vere – anche mantenendo gli indispensabili tratti stereotipati. Ma questo discorso esula dall’aspetto strettamente linguistico e non è il caso di approfondirlo. Credo di aver scritto già troppo, e pensato troppo poco. Ah, visto che a un certo punto D’Antona accenna ai dialetti, potrei mettermi a scrivere di come ritengo che il dialetto sia il nostro equivalente dell’inglese, e che se recitassimo tutti in dialetto non avremmo molti dei problemi di cui sopra, ma chiaramente questa non solo non è una soluzione, ma sarebbe un disastro per un’infinità di motivi che non vale la pena elencare. Potrei mettermi a scrivere di Louis CK. Mi fermo ora, basta.