Educazione Siberiana

Che la storia di Educazione Siberiana di Gabriele Salvatores non sia così vera come il romanzo ‘autobiografico’ di Lilin Nicolai vuole far credere sembra assodato. Io questo non lo sapevo mentre entravo in sala con uno zaino pieno di aspettative e gli occhi ancora confortati dal trailer e dalla locandina, quindi non partivo con un pregiudizio negativo, anzi. Ma non è la storia il problema di questo film. I problemi sono altri. Certamente non mi ha aiutato il fatto che mi aspettassi una specie di La promessa dell’assassino, visto che questo film è l’esatto opposto. Vi invito a non prendere questi pensieri disordinati troppo seriamente, non sono un critico cinematografico ma solamente uno spettatore deluso.

Educazione Siberiana è un film in cui regia, fotografia, montaggio e musiche cercano per tutta la durata della pellicola di dare pathos ad ogni momento, di “regalare emozioni” quando non servono, di aggiungere stile e carattere alla storia quando questo non lo richiede. Il risultato è che, quando il film è arrivato allo snodo fondamentale, ovvero il momento in cui il protagonista uccide il fratello, non ho provato niente. Doveva essere un momento struggente, è invece se ne vola via silenzioso. Era un film, era una favola. Non c’era catarsi. In quella scena un abile regista come Salvatores, e ovviamente i due sceneggiatori che l’hanno accompagnato nell’impresa, avrebbero potuto (e dovuto) far confluire la forza del resto del film. Ma il film non ha forza, o diciamo che non ne ha abbastanza, e dunque non c’è quasi niente da far confluire.

Persino l’ultima, notevole, inquadratura del film è rovinata da quella transizione finale che mi ha fatto rabbrividire non perché si ghiaccia lo schermo, ma per quanto è fuori luogo, televisiva, quasi amatoriale. Questo film, stilisticamente, di “siberiano” ha ben poco, ma lo si capisce già dall’inseguimento iniziale che fa pensare ad una puntata di un poliziesco austriaco di 20 anni fa, e non ad un film con John Malkovich.

Tornando al problema fondamentale, ogni momento drammatico della pellicola è sottolineato con slow-motion da matrimonio (il nastro di Xenja che Kolima lascia cadere sul tavolo mi ha fatto sorridere), note al pianoforte strappa lacrime, sguardi intensi accompagnati da battute banali e quelli che dentro di me ho chiamato eccessi di pathos, come Gagarin che pulisce il tavolo, Xenja che picchia sul pianoforte senza azzeccare una nota anche se nella scena prima suonava Chopin, Gagarin e Xenja sul divano. Non sono la forza della storia e quella, discutibile, dei personaggi che ci fanno emozionare o divertire o soffrire, ma piuttosto si tenta in tutti i modi di far fare alla storia queste cose. La vittima di una violenza, quindi, non è solamente la voluta da Dio Xenja, ma anche e soprattutto la storia stessa di questo film.

Perché ho chiamato la forza dei personaggi “discutibile”? Perché l’amico ciccione simpatico che piace al pubblico non è altro che l’amico ciccione simpatico che piace al pubblico. E quello con gli occhiali un po’ sfigatello? Essendo tratteggiati in modo così superficiale, questi personaggi non aiutano una storia che si sforza di dire qualcosa sul rapporto tra i bambini e il nonno, tra il nonno e la comunità, tra questa comunità e la loro nazione, tra queste persone e la modernità, tra la violenza e i valori.

Prima di chiudere questa amareggiata non-recensione, vi spiego perché ho citato La promessa dell’assassino all’inizio del post. Il film di Cronenberg del 2007 è l’opposto di quello di Salvatores per diverse ragioni. Per quasi tutta la durata della cupa pellicola la violenza, la durezza e freddezza della storia e dei personaggi vengono descritti con violenza, durezza e freddezza. Ogni fotogramma di quel film è voluto dalla storia che sottintende ad esso. È uno stile preciso e determinato quello di Cronenberg, ma è guidato dalla narrazione, e la sua efficacia è dimostrata dalla mia reazione alla fine del film: ricordo che quando partirono i titoli di coda mi ritrovai con gli occhi lucidi ed una inaspettata esplosione di emozioni, ovvero quelle che durante il film restarono represse, perché non trovavano spazio per esprimersi. Chiaramente quella di far ‘coincidere’ forma e contenuti è una scelta, ed è valida anche la scelta opposta, ma non è il caso di Educazione Siberiana. Questo film, per quasi due ore, ha provato a dirmi cosa pensare, cosa provare e come reagire ad ogni cosa, e alla fine è riuscito a non farmi pensare o provare un granché, facendomi guardare un fratello che uccide l’altro con indifferenza.

Scritto da il 2/3/2013 in Film, Pensieri.